L’Italia scommette sul Dragone. Le reazioni all’adesione italiana alla Belt and Road Initiative.

di Claudio Urciuolo - 19 Giugno 2019

from Naples, Italy

   DOI: 10.48256/TDM2012_00045

La Via della Seta 2.0: l’eredità di Xi 

“Via della Seta”: un’espressione che da secoli è capace di solleticare la fantasia dell’Occidente. Perché se, talvolta, sembra che “Oriente” (Cina) ed “Occidente” siano due mondi distinti ed incapaci di comunicare, la Via della Seta ha dimostrato che le due realtà, per quanto lontane, si toccavano. La Via favorì una comunicazione culturale, oltre che commerciale: con reciproco vantaggio. Ed è su questo substrato emotivo e culturale che il Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping intende rilanciare i rapporti commerciali con l’Europa. Senza dimenticare i paesi asiatici che la Via attraversa.

La versione moderna della Via della Seta fu lanciata nell’ottobre 2013 da Xi Jinping. Denominata “Belt and Road Initiative” (BRI), essa prevede ingenti investimenti diretti ed infrastrutturali lungo un corridoio terrestre (Belt) ed uno marittimo (Road). E’ un progetto ambizioso, (coinvolge 65 paesi, tra cui stati di Africa e America Latina), inclusivo, e a lungo termine (la fine è prevista per il 2049, nel centenario della proclamazione della Repubblica Popolare). I Paesi coinvolti rappresentano più del 30% del PIL globale, possiedono il 75% delle risorse energetiche, e vi abita il 62% della popolazione del pianeta (World Bank, 2018). Attraverso la BRI, la Cina punta non solo ad acquisire un evidente vantaggio strategico, ma anche ad allargare la propria sfera di influenza. Xi vuole coinvolgere gli Stati partner nella sua visione del futuro: un futuro in cui “si cresce insieme”, attraverso la cooperazione (Xinhua, 2015).

La BRI è stata velocemente accettata in diversi stati asiatici (tra cui la Russia) che hanno in Pechino un partner commerciale rimarchevole Se da un lato la “trappola del debito” si staglia minacciosa, dall’altro una pioggia di investimenti sul territorio non possono che fare gola ai Paesi in via di sviluppo.

Un’Europa bipolare

In Europa, l’accoglienza è stata da un lato entusiasta, dall’altro decisamente tiepida. Ad Est – in una singolare rivisitazione economica della cortina di ferro, un corridoio di 16 Paesi, dall’Albania alla Lettonia, si sono uniti per poter collaborare con la Cina. Il forum, denominato 16+1, avrà un focus su “infrastrutture, alta tecnologia, tecnologie verdi” (ceec-china-latvia.org, 2017). Altri Stati, come Grecia, Turchia, Lussemburgo, Austria, Cipro e Portogallo hanno invece ratificato individualmente l’accordo BRI (Roussi, 2019).

In questo contesto, l’UE (e la Germania) ha percepito tale ingresso in Europa come un possibile cavallo di Troia di Pechino, che punterebbe a portare nella propria sfera di influenza Paesi europei attraverso prestiti, finanziamenti ed il controllo diretto di infrastrutture (Buzzetti, 2019). Nel 2018, l’Unione ha definito la sua strategia per connettere Europa ed Asia. Per quanto Federica Mogherini abbia prontamente smentito l’esistenza di una controffensiva europea alla BRI, l’UE ha, di fatto, preso posizione (Poggetti, 2019). In particolare, ha sottolineato come diritti umani ed attenzione all’ambiente non siano negoziabili in ogni modello di sviluppo. Un chiaro riferimento alla Cina.

Sempre nel 2018, durante la Münchner Sicherheitskonferenz, l’allora Ministro degli Esteri tedesco, Sigmar Gabriel, si schierò contro la BRI, facendosi portavoce della Confederazione di industrie della Germania. Gabriel dichiarò: “L’iniziativa per una nuova Via dell Seta […] da tempo ha cessato di essere una mera questione economica. La Cina sta sviluppando un’alternativa sistemica e globale al modello occidentale che, al contrario del nostro, non è fondato sulla libertà, sulla democrazia e sui diritti umani” (Speech by Foreign Minister Sigmar Gabriel at the Munich Security Conference, 2018). UE e Germania temono l’ideologia cinese: incompatibile con le libertà promosse dall’Europa.

La strategia italiana

Fino all’avvento del governo Lega-5 Stelle, l’Italia aveva tenuto un atteggiamento di moderato interesse. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella guidò una delegazione di imprese italiane in Cina, nel febbraio del 2017. Nel maggio dello stesso anno, il Presidente del Consiglio Gentiloni ha partecipato al “Belt and Road Summit”. Senza firmare documenti vincolanti, la strategia italiana era simile a quella di altri partner europei: cogliere eventuali opportunità economiche senza vincolarsi formalmente.
Da quando Luigi di Maio è divenuto Ministro dello sviluppo economico, questo processo di avvicinamento ha subito una brusca accelerata. Il sottosegretario del Mise, Michele Geraci, è l’uomo chiave in questa partita: ha accompagnato Di Maio due volte in Cina, ha un incarico come professore in tre università cinesi, parla fluentemente il mandarino (Il Foglio, 2018).

Nell’agosto del 2018 ha costituito, su impulso dello stesso Di Maio, una “task force Cina”. Gli obiettivi: “[…] potenziare i rapporti fra Cina e Italia in materia di commercio, finanza, investimenti e R&D e cooperazione in Paesi terzi, facendo sì che l’Italia possa posizionarsi come partner privilegiato e leader in Europa in progetti strategici quali la Belt and Road Initiative e Made in China 2025”(Pompili, 2018).

Nonostante le reticenze dell’alleato di governo Salvini (che ha definito “neocolonialismo” gli investimenti della Cina in Africa) (Carli, 2019), più vicino alle posizioni degli Stati Uniti, l’Italia ha scelto di scommettere sulla BRI. Il 23 marzo scorso, alla presenza di Xi Jinping, il premier Giuseppe Conte ha firmato un memorandum che rende il Bel Paese il primo membro del G7 ad aderire al colossale progetto cinese (Palladini, 2019). Il premier Conte ha poi partecipato, il 26 aprile, al II Forum della Via della Seta a Pechino.

La reazione di Washington e Bruxelles

L’adesione alla BRI ha immediatamente allarmato le cancellerie sulle due sponde dell’Atlantico. Né Bruxelles né Washington hanno accolto positivamente l’avvicinamento alla Cina di un membro così importante della NATO e dell’UE. Garrett Marquis, portavoce della Casa Bianca, aveva dichiarato prima dell’accordo: “La Via della seta è un’iniziativa fatta dalla Cina, per la Cina. Siamo scettici che l’adesione del governo possa portare benefici economici durevoli al popolo italiano, e nel lungo periodo potrebbe finire per danneggiare la reputazione globale del Paese” (Santelli, 2019). Tra le voci critiche di politici statunitensi, il deputato McCaul (R) ha definito l’intera operazione BRI come “un metodo per Pechino di appropriarsi dell’economia di interi Paesi senza sparare un colpo” (Ching, 2019).

Anche l’Unione Europea dovrà ripensare all’approccio verso la BRI, dopo aver perso Roma. Al momento, due pesi massimi come Polonia e Italia hanno ceduto alle lusinghe cinesi. Dopo la firma italiana, anche la Svizzera ha siglato un memorandum (Cheng, 2019). Per Macron, è ormai arrivato il momento di affrontare la “questione cinese” senza più nascondersi. “La Cina per molti anni ha tratto vantaggio dalle nostre divisioni interne” ha aggiunto (Lee, 2019). Peter Altmaier, Ministro dell’economia tedesco, ha proposto di negoziare l’ingresso nella BRI dell’intera Unione, e di non lasciare campo ai singoli Stati (Telesur, 2019). Un blocco unito ha naturalmente più potere negoziale. L’UE è chiamata a reagire. E, sebbene da Bruxelles non traspaia una posizione ufficiale, il richiamo all’unità sembra essere arrivato forte e chiaro.

Una scommessa da vincere

Per quanto l’adesione italiana sia un’operazione prettamente simbolica, non mancherà di produrre effetti. Per Xi, l’adesione italiana rappresenta una grande vittoria politica. L’Italia ha un’economia avanzata, ha la seconda industria manifatturiera d’Europa (Il Post, 2019), e soprattutto è uno storico (e fedele) alleato di Washington.

Per l’Italia, un’alleanza economica significa aiutare le piccole e medie imprese in un mondo globalizzato in cui fanno sempre più fatica ad esportare. Roma è forte di legami profondi con il popolo cinese. La nuova borghesia delle megalopoli cinesi è un incredibile bacino economico per i prodotti Made in Italy. Eppure, nonostante un incremento del 22% nel 2017 rispetto al 2016 (Finotto, 2018), i 13 miliardi di export verso la Cina rappresentano solo lo 0.9% dell’import di Pechino (contro il 1.9% di venti anni fa) (Kuo, 2019). L’adesione alla BRI fa parte di un più vasto (ma ancora embrionale) tentativo di ritagliarsi una fetta nel mercato del sud-est asiatico (AA.VV., 2015).

Il prezzo da pagare, nell’immediato, potrebbe essere alto. Roma rischia di ritrovarsi isolata in seno all’UE e alla NATO. Gli Stati Uniti, nel pieno di una guerra commerciale con la Cina, temono una possibile colonizzazione cinese dell’Europa. Timore condiviso dall’UE, preoccupata oltretutto dalla gestione delle infrastrutture strategiche da parte di Pechino. Il fronte anti-Cina rischia di sgretolarsi a due mesi dalle elezioni. Che un nuovo vento possa soffiare anche al Parlamento europeo, non è da escludere.

BIBLIOGRAFIA

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Autore dell’articolo*: Claudio Urciuolo. Dr.in Scienze Politiche, Università degli Studi di Napoli “Federico II”; Dr. Magistrale in Relazioni Internazionali presso l’ Università degli Studi di Milano – Dipartimento di Scienze Politiche, Economiche e Sociali.

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