L’ambiente, il cambiamento climatico e la pandemia

di AA.VV. - Autori vari - 30 Aprile 2020

from Rome, Italy

   DOI: 10.48256/TDM2012_00097

Con l’emergere del Coronavirus è stato necessario intraprendere misure altamente restrittive a partire dall’inizio di quest’anno. In questo caso, la Cina è stata la prima nazione al mondo ad aver imposto il distanziamento sociale, l’isolamento e la quarantena. Il connubio di queste tre misure ha bloccato temporaneamente la vita dello stato e dei suoi cittadini, interrompendo la catena produttiva così come i frenetici spostamenti a cui siamo ormai abituati. Di conseguenza, l’inquinamento cinese è calato drasticamente nel primo mese di quarantena, riportando un cielo terso a Shanghai. I benefici delle misure cautelari anti pandemiche sono stati poi riscontrati di seguito in altri grandi centri abitati come Milano e Nuova Delhi (National Geographic, 2020a). Sulla scorta dei dati progressivamente rilevati in tutto il mondo, si è iniziato a ipotizzare che l’arrivo del Coronavirus possa essere un beneficio nella lotta al cambiamento climatico.

Nonostante l’evidente miglioramento della situazione ambientale, è necessario considerare gli effetti della pandemia sul breve e lungo termine. Se nel breve gli effetti delle misure cautelari risultano  in generale positivi, non è possibile affermare lo stesso per le conseguenze a lungo termine. Questo perché la lotta al cambiamento climatico procede a pari passo con la condizione economica e finanziaria. Per comprendere allora l’effettivo apporto del Coronavirus sull’ambiente, è necessario analizzare entrambe le fasi temporali, senza necessariamente attribuire accezione negativa o positiva al virus  ma considerando gli effetti nel breve termine, passando a quelli sul lungo termine, per capire come il virus sfidi il sistema globale vigente e il lascito della pandemia sulla popolazione mondiale.

 

Gli effetti a breve termine

La decrescita dei livelli di CO2

Come indicato da Carbon Brief, i livelli di inquinamento in Cina sono calati drasticamente. All’inizio di Febbraio, le riduzioni nell’uso di carbone e di petrolio greggio hanno portato a una riduzione delle emissioni di CO2 del 25% (Carbon Brief, 2020). Ciò equivale a circa 100Mt di CO2, ovvero il 6% delle emissioni globali nello stesso periodo. Al 30 di Marzo però, i dati risultano meno incoraggianti. Il consumo di carbone nelle centrali elettriche e nelle raffinerie di petrolio, ai minimi ad inizio Marzo, è tornato alla normalità entro la fine di tale mese, circa sette settimane dopo il ritorno al lavoro del Paese, il 3 febbraio. Analogamente, i livelli di inquinamento da biossido di azoto, misurati sia dai satelliti della NASA che dalle stazioni governative cinesi, sono tornati alla normalità, indicando che gli attuali livelli di emissione delle aree urbane e dei centri industriali sono vicini ai livelli pre-crisi (ibid.).

L’esempio della Cina in questo momento è di fondamentale importanza: Pechino è stata la prima a dover affrontare la pandemia e, rispetto al resto del mondo, si trova già nella fase di uscita dall’emergenza. Questo ci permettendo di analizzare anzitempo gli effetti e le reazioni possibili allo shock creato dalla pandemia. Di fatto, è evidente che il beneficio possa essere solo temporaneo e parziale, soprattutto se le economie nazionali, a rischio recessione, dovranno recuperare le perdite degli scorsi mesi e quindi saranno spinte a sovraprodurre con le fonti energetiche tradizionali. Sul lungo termine, effetti positivi del coronavirus sulle emissioni di CO2 saranno riscontrabili solo con un maggior impegno nella transizione energetica ed un piano di green governance, che porteranno anche a costanti e drastici cali dell’emissione di CO2 globale (Johnson, 2020).

Ad ogni modo, si necessita una certa cautela nel considerare la pandemia come unico fattore chiave nella riduzione delle emissioni. Prendendo in questione il caso italiano relativo all’area lombarda e della Pianura Padana, ovvero le zone più severamente colpita dal virus, si nota come il fattore meteorologico abbia inciso nel diminuire l’inquinamento climatico. Come riportato da La Stampa (2020), le riduzioni nelle concentrazioni di PM10 e NO2 avvenute in Lombardia nei giorni 26-27 febbraio sono il risultato del vento caldo, Foehn, che ha percorso la regione. Riguardo alla pulizia dell’aria, questo fattore ha avuto un’ incisività ben maggiore rispetto al calo del del traffico motorizzato, e degli spostamenti in generale, indotto dalle misure restrittive. Si ricorda anche che il livello di inquinamento atmosferico è normalmente più alto durante il periodo di Gennaio e Febbraio, calando drasticamente con l’arrivo della primavera, grazie a fenomeni meteorologici più dinamici (ibid.).

 

Il ritorno  della fauna selvatica

L’ idea che la quarantena abbia permesso alla natura e alle sue specie di rivelarsi nuovamente in aree prima occupate dall’uomo è parzialmente vero e si tratta solo di un effetto a breve termine, sulla quale è presente molta disinformazione. Il National Geographic ha preso in considerazione il celebre video dei cigni e dei delfini presso i canali di Venezia. In entrambi i casi si tratta di notizie manipolate: i delfini “veneziani” sono stati ripresi al porto di Cagliari(National Geographic, 2020b), mentre i cigni sono sempre stati presenti nei canali di Burano (Daly, 2020). Tralasciando la temporanea riconquista territoriale della fauna selvatica, il Coronavirus potrebbe avere effetti positivi su questa nel lungo periodo. La trasmissione del virus sembrerebbe derivare da una specie di pipistrello (Nature, 2020b), ergo varrebbe la pena riconsiderare la nostra prossimità rispetto alla fauna animale e selvatica, capendo quando l’invasività umana possa nuocere alla fauna così come alla nostra salute stessa.

Nel caso cinese, la vicinanza tra la fauna e l’uomo nel mercato di Wuhan, una megalopoli, ha creato condizioni favorevoli per lo spillover di un virus da una specie all’altra, così come per un’ulteriore trasmissione tra gli esseri umani (Franza, 2020). A seguito di ciò, la Cina ha finalmente deciso di implementare nuove regolamentazioni riguardo alla mercificazione delle specie animali (Pratesi, 2020). Questo è il reale effetto positivo della pandemia, da considerare però sul lungo termine. La distruzione degli ecosistemi e il commercio illegale di specie in via di estinzione sono quindi colpevoli nella diffusione del nuovo agente patogeno, sperando che questo possa portare molte nazioni a riconsiderare, non solo la Cina, il proprio impatto sulla sfera animale e i loro habitat, ormai invasi dall’opera umana (ibid.). 

 

Riguardo alla chiusura del buco dell’ozono

Come testimoniato dai recenti studi pubblicati su Nature, il buco dell’ozono è in fase di ridimensionamento (Nature, 2020a). Come nel caso della riduzione delle emissioni di CO2, questo è un effetto temporaneo e che non dipende unicamente dalle misure restrittive intraprese per contrastare l’epidemia. La “guarigione” dello strato di ozono è soprattutto merito delle misure intraprese con il protocollo di Montreal (The Independent, 2020). Quindi, anche in questo caso, l’effetto della pandemia rispetto all’ozono è destinato a durare poco, a meno che questa condizione porti i governi nazionali a ripensare ai metodi produttivi intrapresi. Se anche così fosse, i risultati non avrebbero una rapida proiezione, contando anche un non omogeneo ripristino nelle diverse aree globali: in alcune, potrebbe accadere nei prossimi due decenni e in altri molto più tardi nel corso del secolo. 

 

La plastica che salva vite umane

Una conseguenza ad impatto ambientale decisamente negativa nel breve termine è il sovrautilizzo di plastica, a fini prettamente sanitari e non solo. Nel caso degli Stati Uniti, i governatori del Massachusetts e dell’Illinois hanno vietato o fortemente scoraggiato l’uso di sacchetti per la spesa riutilizzabili. L’Oregon ha sospeso il nuovo divieto sui sacchetti di plastica questa settimana, e le città da Bellingham, Washington, ad Albuquerque, New Mexico, hanno annunciato una sospensione dei divieti sui sacchetti di plastica. Anche nel caso di tazze e altri utensili, come visto recentemente con Starbucks, il riutilizzo di queste ultime rischia di essere veicolo di propagazione per la pandemia (Chaudhuri, 2020). La lotta al sovrautilizzo di plastica è sicuramente venuta meno di fronte alla crisi pandemica, eventualmente annullando parte dei progressi fatti fino ad ora.

A livello sanitario, la necessità di mascherine e di guanti si impone rispetto alla bisogno ambientale di ridurre l’utilizzo di plastiche. In entrambi i casi, queste strumentazioni hanno un utilizzo usa e getta, o una limitata durabilità come nel caso delle mascherine Fp2 e Fp3. Altre strumentazioni danneggiano la lotta all’utilizzo della plastica, considerando anche: i tamponi in nylon-plastica, le fiale di plastica utilizzate per i kit di prova, ventilatori, reagenti chimici necessari per i test, la produzione farmaceutica per qualsiasi farmaco o vaccino eventualmente sviluppato e infine gli igienizzanti per le mani e prodotti per la pulizia personale (Degnarain, 2020). Lungi dal suggerire una rivoluzione nella strumentazione sanitaria proprio durante la crisi, questa risultante dovrebbe motivare le aziende di biologia sintetica e di materie plastiche alternative nel fornire un più incisivo apporto nel combattere le attuali e le future sfide sostenibili della supply chain medica e farmaceutica.

 

Gli effetti a lungo termine

 

Il rallentamento della transizione energetica

Sull’effetto della pandemia nel mercato energetico vi sono due diverse scuole di pensiero in merito alla risultante di questo fenomeno: nel primo caso, si ipotizza che la pandemia rallenti la transizione energetica, nell’altro, si pensa che questo crollo del mercato energetico possa velocizzarla. Perché questa avvenga, bisogna affrontare con successo tre sfide legate al virus: le interruzioni della catena di fornitura che possono portare a ritardi nel completamento dei progetti green in sviluppo; il rischio di non poter beneficiare degli incentivi governativi che terminano quest’anno; la probabile diminuzione degli investimenti a causa della pressione sui bilanci pubblici e privati combinata con l’incertezza sulla futura domanda di energia elettrica. L’ultimo è probabilmente il fattore più importante: risulta difficile pensare come le transizioni a energie non fossili possano avere luogo senza i soldi necessari per investire in queste nuove soluzioni, proprio in prossimità di quella che sembra essere una nuova recessione globale.

In aggiunta, con una recessione incipiente da fronteggiare, i mercati mondiali punteranno ad ottenere il loro status economico pre-pandemia, con le fonti energetiche a disposizione e senza ulteriori investimenti che al momento risulterebbero come un vuoto a rendere. Questo potrebbe quindi tradursi in un sovrautilizzo di greggio e carbone, avente un infimo prezzo di mercato, che annichilirebbe i temporanei traguardi raggiunti a livello ambientale con l’arrivo del Coronavirus. Nel caso in cui si creda che la pandemia possa aiutare le energie rinnovabili, bisogna considerare anche le loro supply chain.

Il caso dell’energia eolica

Prendendo il caso dell’energia eolica questa è altamente interconnessa a livello globale. L’Europa è un importante centro di produzione di turbine eoliche e le fabbriche europee hanno inizialmente subito interruzioni nella fornitura di parti provenienti dalla Cina nel mese di febbraio. Gli impianti di produzione in Italia e Spagna sono stati chiusi da metà marzo a causa di severe misure di confinamento. Inoltre, il recente blocco in India ha richiesto la chiusura della maggior parte degli impianti di produzione non essenziali – compresi i produttori di turbine eoliche e di componenti solari fotovoltaici – fino a metà aprile. Gli effetti sono già tangibili negli Stati Uniti, dove diversi progetti hanno ricevuto notifica dai fornitori riguardo i possibili ritardi di consegna da parte dei produttori. L’incertezza sui tempi e sull’impatto di potenziali misure di blocco in altri paesi potrebbe ritardare ulteriormente il completamento di molti progetti in tutto il mondo (IEA, 2020a).

 

Accelerare verso la transizione energetica

D’altrocanto, la crisi del mercato energetico, specialmente quello petrolifero, può creare nuove occasioni per le economie sostenibili. L’analisi dell’Agenzia Internazionale per l’Energia la descrive come una “opportunità storica” per far progredire l’energia pulita. Se i governi inonderanno l’economia con liquidità, investimenti in progetti di energie rinnovabili metterebbero le persone al lavoro a breve termine e, a più lungo termine, creerebbero sistemi energetici decarbonizzati. Lo scoglio maggiore rimane il fattore economico e il deprezzamento del petrolio che certamente non invoglia i governi a cercare fonti energetiche più costose al momento. Ciò nonostante i costi delle tecnologie solari ed eoliche, sono molto più bassi rispetto ai periodi precedenti, ovvero quando i governi hanno lanciato pacchetti di stimolo. Sta quindi ai governi, o meglio ai chip leader del mercato mondiale, intraprendere questo difficile percorso. Quest’ultimo sarebbe facilitato da un piano di governance condiviso, come nel caso del Green New Deal (Trinità dei Monti, 2020).

In controtendenza con quanto mostrato prima, bisogna anche riflettere sul fatto che ad oggi la capacità di energia rinnovabile è aumentata di 176 GW (+7,4%) nel 2019. L’ energia solare ha continuato a guidare l’espansione della capacità, con un aumento di 98 GW (+20%), seguito dall’energia eolica con 59 GW (+10%) (IRENA, 2020). Per questo motivo i governi devono assicurarsi di mantenere le transizioni ad energie pulite prioritarie mentre rispondono a questa crisi in rapida evoluzione. L’analisi dell’AIE mostra che i governi guidano direttamente o indirettamente oltre il 70% degli investimenti energetici globali. Oggi hanno l’opportunità storica di indirizzare questi investimenti verso un percorso più sostenibile (IEA, 2020b).


L’attuale consumo energetico globale

Non di meno, la percentuale di consumo energetico mondiale derivante da risorse rinnovabili cosiddette moderne (eolico, solare ecc.) è ancora una minima parte del mix energetico totale con un 10.4%, mentre le risorse fossili supportano ancora il 79.5% di tali consumi (REN21, 2019). La crescita del settore rinnovabile rimane in continuo aumento, come dimostrano gli investimenti cinesi nel settore solare, che da soli superano il totale dei fondi utilizzati dai paesi in via di sviluppo. Anche in questo caso si tratterà di un’eventualità a lungo termine e sarà necessario avere memoria storica di quanto sta succedendo.

 

Invertire l’erosione dell’ecosistema

Riguardo al tema già precedentemente affrontato della fauna selvatica, è necessario trovare soluzioni sul lungo termine che non siano solo a termine legislativo, ma anche comportamentale e infrastrutturale. A livello educativo e sociale urge far arrivare il messaggio sugli agenti patogeni e le possibili malattie ai cacciatori, ai taglialegna, ai commercianti e ai consumatori. Questo perché l’effetto di spillover si può verificare con anche solo una o due persone. Le soluzioni iniziano quindi con l’educazione e la fornitura degli strumenti, anche didattici, per aumentare la consapevolezza pubblica (Vidal, 2020). In una recente pubblicazione dello IEED, gli autori Fevre e Tacoli sostengono il ripensamento delle infrastrutture urbane, in particolare all’interno di insediamenti a basso reddito e informali. Essi infatti richiedono una revisione degli attuali approcci alla pianificazione e allo sviluppo urbano, che possa anche rivedere l’invasività dei complessi urbani rispetto agli habitat della fauna selvatica (IIED, 2020).


Ripensare la supply chain globale

L’ arrivo della pandemia ha distrutto le interconnessioni interdipendenti su cui si fonda la supply chain globale.  Questo si trova sulla stessa lunghezza d’onda delle energie rinnovabili, il che è quasi lapalissiano tenendo conto che la produzione è insostenibile senza l’adeguato apporto energetico. La supply chain globale come oggi la conosciamo, è costituita da multipli step produttivi, dove le componentistiche sono prodotte e spedite da diversi Paesi, confluendo tutti verso il produttore. Questa logica nasce dal vantaggio comparativo economico, che ha portato gli acquirenti e i fornitori a guardare all’estero in primo luogo. La specializzazione e l’unicità dei produttori dei beni intermedi, o componentistica, è però diventata nociva all’economia globale. Forse, vi sarebbe bisogno di maggiore competitività nel settore dei beni intermedi, in maniera tale da avere più offerta. Questo però porta rischi maggiori a livello economico e di profitto, soprattutto per i fornitori dei beni intermedi (Foreign Affairs, 2020).

Seppure si stia parlando comunque di un processo a lungo termine, una soluzione migliore sarebbe presentata dall’adozione della circular economy. Questo perché il riutilizzo dei materiali produttivi, o  di scarto, permetterebbe innanzitutto maggiore sussistenza domestica e una migliore interconnessione tra fornitori, produttori e consumatori, intercambiabile e non necessariamente interdipendente. I sistemi circolari impiegano il riutilizzo, la condivisione, la riparazione, la ristrutturazione, la rigenerazione, il riciclaggio per creare un sistema a circuito chiuso, riducendo al minimo l’uso di risorse in entrata e la creazione di rifiuti, inquinamento ed emissioni di carbonio (Ilsole24ore, 2019). Questo sforzo avrebbe un enorme riscontro positivo sull’impatto ambientale della produzione, permettendo di perseguire i Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite e lotta al cambiamento climatico.

Conclusioni

Avendo rilevato gli effetti a breve e lungo termine è possibile capire le relazioni e i possibili benefici che l’ambiente può trarre da questa situazione. Di fatto, con questo momentaneo alteramento globale indotto dalla pandemia si è creato uno scenario favorevole per accelerare le negoziazioni relative al cambiamento climatico, o rallentarle (WRI, 2020). L’esito della decelerazione, o meno, dipenderà dalla risposta economica e finanziaria dei mercati locali e globali. Se mancheranno azioni tempestive e adeguate rispetto al cambiamento climatico, il risultato sul lungo termine potrebbe essere incredibilmente più drastico della pandemia.

 I miglioramenti nella qualità dell’aria e la riduzione di emissioni di gas serra durante quest’ultimo periodo, ad esempio, ci hanno fatto rendere conto della drasticità delle misure necessarie per rallentare o invertire il processo dei cambiamenti climatici. Ora abbiamo un esempio evidente di cosa significherebbe ridurre la attività produttive di intere nazioni e siamo consapevoli degli impatti che tale riduzione avrebbe sul clima. E’ ora più chiaro quali siano le implicazioni socio-economiche per il raggiungimento di un sistema che abbia a cuore il clima, offrendo spunti di riflessione per negoziatori climatici, attivisti e politici attivi in questo settore. La pandemia ha perciò offerto un reality check di cosa il cambiamento climatico potrebbe causare sul lungo termine, e inoltre, un metro di paragone per quanto riguarda le necessarie misure per raggiungere le sperate riduzione di emissioni.

 

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Autori dell’articolo*:

Luca Mazzacane. Dr. Lingue e Culture Moderne presso l’Università di Pavia (BA), Dr. in International Relations presso LUISS Guido Carli (MA), Roma

Nicola Blasetti, Basc in Politics and International Studies & Global Sustainable Development presso la University of Warwick, studente di MPhil in Environmental Policy presso l’University of Cambridge, Homerton College.

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Nota della redazione del Think Tank Trinità dei Monti

Come sempre pubblichiamo i nostri lavori per stimolare altre riflessioni, che possano portare ad integrazioni e approfondimenti. 

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Editor’s Note – Think Tank Trinità dei Monti

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